La lingua, strumento irrinunciabile dello spazio pubblico europeo

 Robert Joumard, Henri Paraton, Michel Christian & Jean-François Escuit
(commission Construction européenne d'Attac Rhône)

5 settembre 2007

Per essere democratica, la vita politica europea necessita di uno spazio pubblico che offra le condizioni di un vero dibattito pubblico europeo collettivo, che metta sul tappeto le contraddizioni e i consensi tra i popoli e tra i cittadini. Invece la società è divisa tra coloro che possono parlare – e sono rari – e la massa che deve solo stare zitta; tra coloro che sono informati essendo in grado di attingere alle fonti più disparate – e sono ancora più rari – e la massa che riceve notizie incomplete, deformate, omologate (1).

 

Bisogna organizzare per tutti, un diritto all’informazione pluralista e in contraddittorio (2). È questa una condizione elementare della vita democratica: i cittadini europei devono potersi informare ed informare gli altri cittadini europei, perché a loro compete il dibattito. Si tratta quindi del diritto di accesso all’informazione come pure del diritto alla diffusione dell’informazione stessa.

 

Oltre ad altri aspetti (3), la costruzione di uno spazio politico comune pone anche il problema della diversità delle lingue, tenuto conto dell’onnipresenza della lingua nell’attività umana. In effetti qualsiasi restringimento del dibattito all’interno delle frontiere linguistiche o nazionali implica la difesa di interessi nazionali, per quanto legittimi. E invece quello che dobbiamo discutere tutti assieme è l’interesse generale dell’insieme degli Europei. Per questo dobbiamo riuscire a capirci tra attori dello spazio pubblico (cittadini, stampa, politici…)

Dal greco al globish

Le élite hanno spesso utilizzato una lingua diversa da quella del loro popolo per rafforzare il loro dominio: è stato così per il greco a Roma, per il latino nell’Europa del Medio Evo, del francese in gran parte dell’Europa nel 18° e 19° secolo. Ora li ha sostituiti l’inglese o meglio l’anglo-americano: il globish. Esso è innanzitutto una lingua franca che serve a ordinare un caffè da Tamanrasset a Pechino, e che serve soprattutto nelle gare d’appalto a Bruxelles. A differenza dell’inglese, il globish è una lingua estremamente povera che insegna o costringe a pensare poveramente. Potrebbe essere paragonata alla lingua del III° Reich, un tedesco in fase di trasformazione, d’impoverimento, orientato-violentato da vocaboli quali “minuscole dosi di arsenico” per diventare una lingua di trasmissione ideologica (4,5,6). Forse che il globish non è anch’esso una lingua in fase di modificazione, di impoverimento, orientata-violentata per diventare la lingua veicolare dell’ideologia libero-scambista, alla quale è unita da una specie di solidarietà naturale (7)? Il globish è l’idioma delle élite mondiali che lo hanno progressivamente imposto come lingua a vocazione planetaria e con il quale esse aspirano ad imporre surrettiziamente solo i loro schemi di pensiero. Non è forse uno dei modi che esse utilizzano per assicurarsi il dominio  sui popoli? (8). La rapida diffusione del globish tende peraltro ad emarginare le lingue nazionali e a rivalutare le lingue infranazionali come si può vedere, ad esempio, in Spagna e in Germania (9). La convergenza accelerata, se non si interviene in tempo, verso l’egemonia linguistica dell’inglese è pericolosa per la diversità linguistica e soprattutto culturale, ed è preoccupante per le sue implicazioni politiche e geopolitiche.

L‘uso di questa lingua nazionale negli scambi internazionali procura altresì un vantaggio considerevole ai membri anglofoni dell’Unione europea – il Regno Unito e l’Irlanda – che hanno ovviamente un ruolo essenziale nell’insegnamento della loro lingua e che – al contrario degli altri partner – non devono far fronte ad alcun costo di traduzione né di interpretazione. Le aziende non anglofone devono invece sostenere ulteriori costi molto pesanti di traduzione e di interpretazione professionali per poter lavorare in condizioni pari a quelle dei loro omologhi anglofoni. Senza dimenticare che ai costi diretti del personale si aggiungono alti costi indiretti e organizzativi (allungamento dei tempi di lavoro per l’ulteriore e necessaria, fase di traduzione…). Si stima che il Regno Unito ne ricavi attualmente, al netto, un minimo di 10 miliardi di euro l’anno; addirittura 18 miliardi se si tenesse conto dell’effetto moltiplicatore di certi componenti di tale cifra e del rendimento ricavabile da questi fondi liberati (10). Questa cifra, che corrisponde all’1% circa del PIL britannico, non tiene conto di diversi effetti simbolici, come il vantaggio di cui godono i locutori nativi della lingua egemone in tutte le situazioni di negoziato o controversia che si svolgano nella loro lingua. Basta mettere in rapporto queste cifre con il bilancio dell’Unione europea (116 miliardi di euro nel 2007), o con il contributo del Regno Unito a tale bilancio, che ammonta a 15 miliardi di euro. Va da sé che non è tanto la lingua inglese come tale ad essere messa in discussione, quanto l’egemonia linguistica, a prescindere dal paese o gruppo di paesi che ne traggono vantaggio.

L’altra lingua comune, l’esperanto, nata più di un secolo fa, non è mai riuscita ad affermarsi. Non è riuscita a vincere le prevenzioni che la circondano, spesso basate sulla semplice ignoranza (10).

Ma che cos’è una lingua?

Da parte loro, i linguisti ci insegnano che le lingue non sono neutre. Ogni lingua esprime concetti che le sono propri e veicola una visione del mondo particolare. In effetti diverse lingue sono atte a significare diversi concetti (11): a partire dal 16° secolo noi sappiamo che lingue diverse sono atte a significare concetti diversi. La diversità delle conoscenze è legata alla diversità delle lingue.  E questo vale anche per concetti come laicità e servizio pubblico, che la lingua francese esprime molto bene, ma che non sono facilmente traducibili in altre lingue, se non con lunghe perifrasi; della common law britannica, sorta di diritto orale poco comprensibile per un non anglofono, oppure, in un campo diverso, del business plan, una specie di pianificazione d’impresa, che in francese viene utilizzato tal quale, senza che la maggioranza ne colga chiaramente il significato. Anche la storia ha avuto un grande ruolo nelle espressioni del registro politico. Pensiamo ad esempio a espressioni come “Stati generali” oppure “cahiers de doléances” che, anche se tradotti, non significano granchè per la maggior parte degli europei. Parole come “nazione” oppure “popolo” rimandano a nozioni non solo differenti ma persino opposte quando sono impiegate in tedesco – con una connotazione imperiale ed etnica, o in francese – assumendo allora un significato politico di emancipazione. Lo stesso con l’inglese: quando si parla di “liberté” in Francia, si fa quasi sempre riferimento a diritti conquistati collettivamente, sanciti dalla legge e garantiti dallo Stato. In Gran Bretagna “liberty” rimanda invece alla limitazione del ruolo del potere pubblico. Questi concetti, e la lingua che li esprime, sono legati al contesto politico e a loro volta lo influenzano (8)

Gli illuministi e una parte della filosofia anglo-sassone, detta analitica, si sono opposti a questa specificità delle lingue. I filosofi dell’era dei Lumi hanno lottato contro i “pregiudizi” sedimentati nelle lingue. La politica linguistica del “Terrore”, cinque anni dopo la rivoluzione francese, ne è la continuazione politica: mirava a distruggere i pregiudizi semantici sedimentati nelle diverse lingue in Francia ma che si trovano anche nella stessa lingua francese. Quest’ultimo obiettivo è mancato: il francese non è stato ripulito del suo carattere francese (9). Quanto alla filosofia anglo-sassone, quel che conta, almeno come tendenza al suo interno, è il concetto, non la parola, non la lingua. Universalità del concetto indifferente alla propria espressione, poco importa l’abito, la lingua che indossa. E il tradurre altro non è che un cambiare vestito. Ma non ne emerge la caratteristica universale.

All’opposto di queste concezioni, tra i linguisti vi è chi ritiene che quel che conta in ogni lingua, quello che la caratterizza, sono gli equivoci che essa contiene: gli equivoci caricano di senso la parole di una lingua nel suo uso letterario ma anche tecnico e politico (4, 12). E, estremizzando, il nazionalismo linguistico ipervalorizza le specificità della  lingua nazionale, la sua visione del mondo e nega che le altre lingue siano altrettanto preziose e altrettanto ricche. Una lingua è dunque nel contempo un semplice strumento di comunicazione atto a tradurre una quantità di concetti e uno strumento ideologico particolarmente atto ad esprimere certi concetti e non altri.

Percorsi linguistici per uno spazio pubblico

Sovranità popolare e costruzione di uno spazio pubblico richiedono quindi che le lingue, che ne sono il vettore, permettano a ciascuno di esprimersi e di essere capito, senza però imporgli  concetti che gli sono estranei e senza intaccare la diversità culturale dell’Europa. È quindi fuori discussione l’imposizione ai cittadini europei di questa o quella cultura nazionale, in particolare se questa cultura non è europea ma essenzialmente americana, come è il caso del globish (13).

Diverse soluzioni non esclusive si possono prendere in considerazione:

Andare verso un inglese veicolare e deculturato. Ma è possibile? I linguisti hanno forti dubbi come si è visto più sopra, e insistono sulla povertà del pensiero che provocherebbe. L’inglese anche deculturato sarà sempre e comunque prossimo all’anglo-americano. Il costo economico, culturale e politico dell’egemonia di una sola lingua nazionale sarebbe notevole.

Sviluppare la prevalenza di alcune lingue in seno all’Europa: il tedesco, il francese e l’anglo-americano (14); ma questo non cambierebbe i termini del problema, le altre lingue europee finirebbero comunque per essere eliminate e nulla ci dice che ciò frenerebbe l’egemonia del globish.

Rafforzare le raccomandazioni europee di insegnare sistematicamente due lingue straniere in ciascun paese membro, rendendole obbligatorie oppure insegnando a tutti gli Europei tre o quattro lingue europee affinché la maggior parte le parli correntemente, come avviene ad esempio in molti paesi africani. Uno scenario del genere sarebbe altrettanto costoso di quello dell’egemonia dell’inglese, ma ridurrebbe considerevolmente gli stanziamenti contrari all’equità come pure  le disuguaglianze tra Europei. Presenta un rischio certo di instabilità e di erosione a favore dell’anglo-americano, a meno che non venga sostenuto da provvedimenti di accompagnamento molto rigorosi (10). Detto questo, un paese come l’Italia si rifiuta di applicare questa raccomandazione.

Promuovere l’intercomprensione tra le varie famiglie linguistiche, per esempio tra le lingue romanze, slave, o germaniche, come già avviene per le lingue scandinave. Potrebbe essere una soluzione a breve e medio termine (13). Per intercomprensione si intende la capacità di comprendere una lingua straniera senza saperla parlare né scrivere: ciascuno parla e scrive nella propria lingua e capisce e legge quella dell’ altro (15). Ciò favorisce certamente gli scambi in seno alla stessa famiglia linguistica, ma non è sufficiente per uno spazio pubblico realmente europeo. Una prima abitudine che ognuno può mettere in atto è quella di preferire espressioni lunghe ma non ambigue a  termini o espressioni sintetiche che vengono comprese in modo diverso, a secondo degli ambienti e delle culture.

Far assumere all’esperanto il ruolo di lingua comune delle future generazioni. È una lingua artificiale, un po’ come l’ebraico moderno che comunque si è imposto in Israele. Non è la lingua di nessun paese e il suo utilizzo non darebbe alcun vantaggio economico o simbolico a questo o a quel paese. Il suo utilizzo si tradurrebbe in un risparmio netto di circa 25 miliardi di euro per l’intera Europa (Regno Unito e Irlanda compresi) e di circa 5 miliardi per la Francia (10). È una lingua molto più facile da apprendere di tutte le altre: mentre occorrono 1500 ore per raggiungere un livello standard di inglese, si valuta che basterebbero da 3 a 10 volte meno ore per raggiungere un equivalente livello in esperanto (10, 16, 17). Basterebbe rendere obbligatorio il solo insegnamento dell’esperanto, oltre alla lingua nazionale, tutte le altre lingue sarebbero facoltative. Oggi è una lingua priva di qualsiasi tradizione culturale, che l’esercizio del pensiero non ha ancora arricchito: ma potrebbe diventare una lingua di cultura, il cemento civico dell’Europa. La Conferenza generale dell’Unesco del 1985 riconosceva “le grandi possibilità offerte dall’esperanto per la comprensione internazionale e per la comunicazione tra i popoli di nazionalità diverse”. Andrebbero superate le frequenti reazioni di rigetto nei suoi confronti, soprattutto con l’informazione e la volontà comune.

Occorre comunque una forte volontà politica per istituzionalizzare questi vettori di scambi diretti e di identità comune tra le cittadine e i cittadini d’Europa. Solo l’intervento dello Stato ha infatti permesso a certe lingue (ungherese, finlandese, ceco, estone, ebraico moderno, ecc) di sopravvivere o di adattarsi alla modernità (7).

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Riferimenti

1. Mort d’une liberté. Techniques et politique de l’information. J. Kayser, Plon, 1955.

2. Pour une appropriation populaire des médias. Groupe de travail "médias" du Parti communiste français, novembre 2005, 26 p. www.forum-alternative.fr/IMG/pdf/note_media.pdf

3. Quelle Europe construire ? Les termes du débat. R. Joumard, H. Paraton, M. Christian & JF. Escuit, 2007, 46 p. http://etienne.chouard.free.fr/Europe/messages_recus/Quelle_Europe_construire.rtf ; version espagnole : http://etienne.chouard.free.fr/Europe/messages_recus/Que_Europa_construir.rtf

4. Les « intraduisibles » en sciences sociales. B. Cassin, Traduire, n°212, 2007, p. 51-61.

5. LTI, la langue du IIIe Reich. Carnets d’un philologue. Victor Klemperer, trad. fr. E. Guillot, Albin Michel, 1996 [Leipzig, 1975].

6. speak English, Parlez globish ? J-P. Nerrière, Eyrolles, 2e éd. mise à jour et complétée, 2006.

7. Combat pour le français. C. Hagège, Odile Jacob, Paris, 2006, 244 p.

8. Être et parler français. P.M. Coûteaux, Perrin, 2006, 400 p.

9. L’antinomie linguistique – Quelques enjeux politiques. J. Trabant, in M. Werner (dir.), Politiques et usages de la langue en Europe, éd. MSH, 2007, p. 67-79

10. L'enseignement des langues étrangères comme politique publique. F. Grin, Haut conseil de l'évaluation de l'école, Paris, 2005, 125 p. http://cisad.adc.education.fr/hcee/documents/rapport_Grin.pdf

11. Dialogo delle lingue. S. Speroni, 1542, in M. Pozzi (dir.), Discussioni linguistiche del Cinquecento, Turin, UTET, 1988, p. 279-335.

12. La traduction des brevets : quand la technique rencontre le droit. J. Combeau, Traduire, n°212, 2007, p. 62-69

13. Un monde polyglotte pour échapper à la dictature de l'anglais. B. Cassen, Le Monde Diplomatique, janvier 2005, 6 p. www.monde-diplomatique.fr/2005/01/CASSEN/11819

14. Une constitution européenne. R. Badinter, octobre 2002. www.aidh.org/Europe/Conv_05badin.htm

15. Des université européennes ont développé des initiatives et des programmes d'intercompréhension, parmi lesquels le projet GALATEA : http://www.u-grenoble3.fr/galatea/ e http://www.galanet.eu.

16. L'espéranto. B. Flochon, in Gauthier (éd.), Langues : une guerre à mort, Panoramiques, n°48, 2000, p. 89-95.

17. Étude de la Commission sur la langue internationale. Ministère de l'instruction publique / Ministero delle pubblica istruzione, Bollettino ufficiale del Ministero delle pubblica istruzione, n°21-22, 1995, p. 7-43.