Senza scopo di lucro

21/02/2009 - Senza scopo di lucro (articolo di F.Nannetti sul tema della privatizzazione dei servizi pubblici, per la rivista Lavoro e Salute)

 

Non c'è bene più sacro ed essenziale, ma al tempo stesso più dimenticato, dell'acqua che esce dai
nostri rubinetti di casa e dalle fontanelle pubbliche. Perché fa parte di quei servizi che diamo a tal
punto per scontati che solo quando mancano, o non hanno più quella qualità “standard” cui siamo
abituati, ci accorgiamo che esistono, e magari che ce li stanno portando via.
Ogni tanto ce ne ricordiamo quando vediamo in televisione, nei documentari, le donne africane fare
chilometri ogni mattina con le giare fino al pozzo o, più in piccolo ma sulla nostra pelle, quando ci
manca l'acqua in casa per qualche ora.
Eppure non c'è dubbio che tutte le meraviglie tecnologiche di cui ci riempiamo la casa ci
apparirebbero immediatamente come superflue chincaglierie se non disponessimo più di acqua
corrente per bere, cucinare, lavarci e lavare. Acqua corrente e potabile, come dovremmo ricordare
sempre prima di comperare chili di minerale costosa, meno salubre ed inquinante.
Il servizio di fornitura di acqua potabile mediante acquedotto, denominato servizio idrico integrato
quando comprende quello di fognatura e depurazione delle acque reflue, in Italia è stato gestito da
aziende municipalizzate, diretta emanazione dei Comuni, fin dai primi anni del Novecento, quando
il liberale governo Giolitti affidò ai Comuni un servizio prima gestito da aziende private; si era
capito infatti che il privato “portava l'acqua” solo dove ciò era remunerativo, lasciando larghi strati
della popolazione in condizioni medioevali. Ma poiché le epidemie non facevano distinzione di
censo, questo stato di degrado si rifletteva anche sulle classi abbienti. Per questo si decise che certe
garanzie di universalità ed economicità del servizio idrico potevano essere assicurate solo dal
pubblico. Da allora, fino alla metà degli anni '90, nel bene e nel male, il servizio idrico è stato esteso
alla stragrande maggioranza dei cittadini con acqua di buona qualità in gran parte della penisola e
con tariffe molto economiche tanto da non pesare molto sul portafoglio – anche perché parte dei
costi sono sostenute dalla fiscalità generale.
Ma il vento privatizzatore che ha consegnato, con risultati sotto gli occhi di tutti, le nostre aziende
pubbliche al gotha dell'imprenditoria italiana, non poteva lasciare immune l'acqua.
A partire dalla legge Galli del 1994, un susseguirsi di interventi legislativi hanno prima reso
possibile e poi incoraggiato la privatizzazione che si è diffusa a macchia di leopardo. Fino al
Tremonti di questi mesi, che lasciate ai salotti ed ai libri da vendere le chiacchiere antiliberiste della
sua presunta metamorfosi, con l'art.23 bis della legge n.133 del 2008 afferma con protervia che tutti
i servizi pubblici locali, acqua compresa, devono essere messi sul mercato e gestiti da società
private o miste, lasciando in piedi l'opzione di affidamento diretto ad aziende pubbliche, cosiddetta
“in house”, con tali e tanti vincoli da renderla quasi impraticabile. E' appena il caso di ricordare che
per la Corte di Giustizia Europea, le regole europee consentono ad un'autorità pubblica “la
possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri
strumenti, senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi”.
I movimenti popolari, in questi anni, non sono stati a guardare. Non hanno accettato il principio che
l'acqua sia una merce come le altre e che dovessimo lasciare il patrimonio idrico del pianeta nelle
mani di poche grandi multinazionali. Così in America Latina si sono combattute battaglie anche
sanguinose a difesa dell'acqua – che nella cultura indigena ha un valore di sacralità che si è perso
quasi del tutto in Occidente – fino ad ottenere vittoriose ripubblicizzazioni in Bolivia e Uruguay. In
tutta Europa si sperimenta il ritorno al pubblico, dopo aver visto i disastri delle gestioni private, ed è
di queste settimane l'annuncio che Parigi allo scadere del 2009 riprenderà in mano pubblica la
gestione dell'acquedotto.
Anche da noi, nonostante il livello della classe politica attuale, grazie alle pressioni ed alle iniziative
dal basso, si collezionano piccole vittorie sui territori e si sperimentano forme di resistenza
all'arroganza del privato, come a Latina, dove gli agguerriti comitati locali aiutano i cittadini a
praticare, in via di disobbedienza civile, l'autoriduzione della bolletta ai livelli della precedente
gestione comunale ed il pagamento di questa al Comune invece che al gestore Acqualatina SpA.
E' nato un Forum Italiano dei Movimenti per l'acqua che oltre a connettere e incoraggiare le le campagne locali ha raccolto nel 2007 quasi 500.000 firme (di cui 20.000 solo a Torino) per una
legge popolare di ripubblicizzazione che adesso è in discussione nelle Commissioni parlamentari.
La battaglia per l'acqua pubblica ha assunto quindi uno straordinario valore simbolico, ma vi sono
fondati motivi di ordine tecnico-economico a sostenere la scelta rigorosa della gestione pubblica
anche a prescindere, come non si deve fare, dalla specialità unica del bene acqua.
A sostegno della tesi secondo cui il servizio idrico dovrebbe migliorare con la privata gestione si
portano comunemente due argomenti ricorrenti:
1) Se il prezzo dell’acqua è troppo basso, come attualmente, l’utente finale è indotto allo spreco.
Tariffe proporzionate al reale valore del bene costituirebbero un incentivo al risparmio.
2) La gestione aziendale del servizio raggiungerà risultati di maggiore efficacia ed efficienza.
Il gestore può perseguire tre strade, anche simultanee, per l’incremento dei propri utili: l’aumento
della tariffa entro i limiti consentiti dal mercato, la riduzione dei costi di gestione e l’aumento delle
“vendite” (ossia del fatturato).
Ma la tariffa, ad oggi, è ancora stabilita dagli enti locali sulla base anche di criteri sociali. Nel caso,
non così remoto, che in futuro essa sia affidata al mercato (il Forum dell’Aja del marzo 2000
dichiarava la necessità di affidare al mercato la definizione del “giusto prezzo” dell’acqua
considerata come bene economico), per poter sperare di ottenere le riduzioni di consumo previste
nella prima argomentazione, allora ci si deve domandare: di quale mercato si tratta? Poiché un
qualunque cittadino è vincolato a ricevere l’acqua dalla rete locale, non ha possibilità di scelta: si
tratta di una situazione di “monopolio naturale”. Chiunque dovrebbe concordare che, data
l’ineliminabilità del monopolio, conviene ai cittadini che esso sia pubblico e non privato,
quantomeno perché, se il monopolio è privato, l’impresa che ne beneficia “fa” il prezzo entro ampi
limiti (per tacere di altre ragioni). Ma c’è di più: l’aumento delle tariffe, già sperimentato in varie
sconcertanti gestioni nazionali, colpirebbe ovviamente soprattutto i ceti sociali disagiati, che
potrebbero essere costretti a razionare un bene di primaria importanza per la vita. Questi soli
sarebbero indotti a diminuire i consumi, mentre i ceti alti, il cui consumo d’acqua pro capite è per di
più maggiore, sarebbero ben poco toccati. Ancor meno lo sarebbero le aziende “idrovore”, come ad
es. le cartiere, che si riforniscono spesso direttamente dalla falda. Senza contare che, in assenza di
controllo pubblico, le tariffe potrebbero essere differenziate dall’azienda in modo da penalizzare gli
utenti di quelle zone lontane o poco densamente popolate che incidono in maggiore misura sul
costo.
La seconda opzione a disposizione dell’azienda (la riduzione dei costi) avrà probabilmente come
naturale conseguenza, oltre alle politiche di tagli già sperimentati ampiamente in altri settori
privatizzati (pensate a Ferrovie dello Stato e Poste Italiane), l’abbandono a se stessa della rete idrica
causata dall’abbattimento dei costi di manutenzione. Infatti l’impresa guadagna sul volume d’acqua
prelevato dagli utenti, mentre non paga l’acqua che la natura convoglia alla rete di acquedotto. Non
è credibile che le maggiori spese di pompaggio, unica voce di costo variabile ad essere incrementata
dalla presenza di perdite nella rete, possano superare i costi di manutenzione della stessa (gli
acquedotti italiani, come si sa, non versano in buone condizioni) e quindi indurre l’azienda a fare
piani d’investimento in tal senso. Questo elemento porterebbe quindi ad un progressivo aumento
degli sprechi, anziché alla loro diminuzione. D’altra parte la corretta ed efficiente gestione della
rete, in quanto concausa di un miglior servizio offerto, sarebbe per l’azienda conveniente per
ottenere la soddisfazione del cliente e la sua fidelizzazione: ma questo, di nuovo, avrebbe senso in
regime di libera concorrenza, non nel caso di monopolio privato, in cui il cliente è vincolato nella
scelta entro ampi limiti. E se nel caso di poste e ferrovie l’utente può almeno scegliere differenti
modalità di comunicazione o, rispettivamente, di trasporto, ciò non è possibile per il servizio idrico.
Rimane poi da esaminare la terza opzione: l’aumento del fatturato. Ma per un’azienda erogatrice di
una risorsa, aumento del fatturato equivale ad aumento dei consumi di quella risorsa. Perciò per
seguire questa strada l’azienda dovrebbe incentivare la massimizzazione del consumo d’acqua e non
la sua razionalizzazione.
Insomma, si tratta di argomentazioni funzionali ad aprire nuovi ghiotti mercati per i colossi del settore pronti a rivendicare, direttamente o per bocca di forze politiche, la necessità di liberalizzare
ciò che resta dei servizi pubblici locali.
In questo contesto il Comitato torinese per l'acqua pubblica propone al Comune ed alla città intera
di affermare nello Statuto comunale il principio fondamentale che l'acqua è un servizio da gestire
senza scopo di lucro.
Una definizione semplice e pulita: sull'acqua non si specula, nessuno deve trarre profitto dal
servizio pubblico più importante e vitale. Una gestione virtuosa del servizio, da perseguire con
intransigenza e scelte oculate, deve produrre esclusivamente benefici economici per la comunità
locale.
Con una tale dichiarazione, seguono logici i commi successivi che proponiamo di inserire nello
Statuto: la gestione della rete idrica, la cui proprietà deve rimanere pubblica e inalienabile, e
l'erogazione del servizio sono da affidarsi ad enti o aziende pubbliche. Un nuovo modello di
pubblico, che faccia tesoro delle gestioni migliori del passato e del presente compresa l'esperienza
di SMAT, aprendo però alla partecipazione di rappresentanti della società civile e dei lavoratori del
servizio stesso alle scelte di gestione.
Infine proponiamo che venga stabilito e garantito un minimo vitale gratuito per ciascuno, perché il
diritto all'acqua valga per tutti.
I Consiglieri e il Sindaco raccoglieranno questa sfida, con cui “offriamo”a Torino la chance per
porsi, sull'acqua, all'avanguardia in Italia, sull'esempio di Parigi e – potremmo dire – ben prima
della rivale di sempre Milano?
Dipende anche da tutti noi: se andremo a firmare ai banchetti in tantissimi, nei prossimi mesi,
questa utopia così concreta potrà farsi reale e aprire la strada alla ripubblicizzazione dell'acqua
nel Paese
Francesco Nannetti

Le riforme che hanno condotto all’attuale situazione partono nel 1994 con la legge n.36 (legge
“Galli”) che accanto ai notevoli meriti sia in alcuni principi espressi sia nella riorganizzazione del
settore, pone però le basi per la gestione mercantile laddove afferma che la tariffa deve coprire per
intero i costi del servizio.
Le riforme targate “Bassanini”, anch’esse benemerite sotto altri aspetti, sfociano nel Testo Unico
degli Enti Locali (d.lgs.267/2000) che consente la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza
economica anche mediante società di capitali a partecipazione privata, anche maggioritaria. Nel
paese la privatizzazione dell’acqua si diffonde a macchia di leopardo sul territorio finché, con la
Finanziaria 2002 di Berlusconi-Tremonti, si impone la gestione mediante società private o miste
obbligando i Comuni a mettere l’acqua sul mercato.
Nel silenzio totale dei mezzi d’informazione, si compiono però battaglie istituzionali importanti e
due anni dopo il governo è costretto a riconoscere che in conformità all’Europa si deve consentire
agli enti locali di assicurare la fornitura del servizio idrico mediante aziende totalmente pubbliche
da loro controllate e vincolate a operare prevalentemente sul territorio dove viene loro affidato il
servizio. Nasce così il modello “in house”, un passo avanti ma pur sempre un modello del tutto
inscritto nei paradigmi del diritto privato. E’ il metodo con cui gli enti locali della provincia
torinese hanno fatto l’affidamento a SMAT, che è società a totale capitale pubblico.